La missione: un amore urgente

Certamente fiumi di parole e di riflessioni possono essere e sono stati fatti sulla missione di Gesù.

Una missione che gli deriva da una verità fondamentale: Egli è il «mandato», l’inviato dal Padre. È sorprendente quante volte nei Vangeli, specie nel Vangelo di Giovanni, il Cristo faccia riferimento a se stesso come «mandato» e al Padre come «Colui» che lo «ha mandato».
Ma dove attinge Gesù questa consapevolezza della missione e dove, quindi, noi stessi possiamo attingerla? Evidentemente, in tutta l’esistenza del Cristo, la consapevolezza di una missione cresce gradualmente e non possiamo certamente conoscere i tempi e i modi in cui tale consapevolezza matura pienamente nel Suo Cuore.
La parola di Dio ci fa contemplare un episodio che i Vangeli collocano all’inizio della vita pubblica di Gesù, dunque della «missione» vera e propria: si tratta del Suo Battesimo, quando Egli sente quell’indimenticabile definizione che di Lui dona la voce del Padre dal cielo: «II Figlio mio, l’amato» (Mt 3,17).
Mi piace invitarvi ad intravedere una parola cruciale che emerge da questo brano evangelico: il Figlio è l’«amato»; in greco, agapetòs. Dalla consapevolezza di questo amore, che definisce totalmente il Figlio di Dio, inizia la spinta e la storia della missione.
La missione di Cristo, il suo essere «mandato», coincide con l’essere «amato». Ma coincide anche con l’amore tanto grande con il quale il Padre «ha amato» il mondo (cfr. Gv 3,16). Per questo amore Dio «ha dato» il suo Figlio unigenito (cfr. Gv 3,16), «ha mandato» il Figlio nel mondo (cfr. Gv 3,17).
La missione, dunque, si colloca, si comprende, si illumina, nella luce e nell’orizzonte dell’amore: «l’amore del Cristo», che è amato dal Padre e mandato ad amare dello stesso Amore del Padre.

L’amore del Cristo ci possiede: mandati – amati

Mandati – amati: è il primo binomio della missione.
Anche il nostro essere mandati si colloca nel contesto di questo amore perché anche noi siamo mandati «come» Gesù: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). E, «come» Gesù, all’Origine della nostra missione c’è la certezza che è l’amore a definirci; che è l’essere amati la definizione che di noi dona il Signore.
È dunque questo stesso amore, «l’amore del Cristo», che rende missionari noi, Sua Chiesa.
L’amore di Cristo, caritas Christi. Caritas Christi urget nos!
«L’amore del Cristo» è il soggetto primo della missione. Ed è interessante che l’interpretazione esegetica più accreditata spieghi che il genitivo qui usato da Paolo – «del Cristo» – va interpretato in modo soggettivo, non aggettivo. In altre parole, l’espressione non si riferisce al suo o al nostro amore per Cristo, bensì all’amore di Cristo per Paolo, per noi, per il mondo.
Amati dal Padre, amati dal Figlio.
Cari amici, fare esperienza di questo amore è la prima, imprescindibile tappa della missione. Fare esperienza di questo amore rende la missione «urgente», di quell’urgenza tipica dell’amore.
Il verbo che il latino traduce con urget, e che in greco è synéchei, illumina il senso dell’urgenza e della modalità della missione che l’amore richiede.
Come gli esegeti sottolineano, in realtà, «è difficile stabilire il senso del verbo synéchei, a causa della varietà di significati: “tenere insieme” (è il significato più letterale), “sostenere”, “guidare”, “sospingere”, “abbracciare”, “stringere”, “travolgere”, “reclamare”, “obbligare”, “costringere”, “opprimere”, “affliggere”, “comprimere”, “sequestrare” e “tormentare”».
Sarebbe bello provare a coniugarli tutti, per verificare se e come in noi è presente qualche aspetto di questo amore che ci induce alla missione. La logica di questo amore, e dunque il significato del verbo, si intravede meglio se si prosegue nella lettura: «L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi ma per lui che è morto e risorto per loro» (2Cor 5,14-15).
In questa logica, come qualcuno osserva, «Paolo non intende soltanto evidenziare che l’amore di Cristo ci “spinge” o ci “sospinge” nell’amore o nel ministero verso gli altri: la posta in gioco dell’asserzione sembra più ampia. Qui è in gioco un cambiamento totale nel modo di relazionarsi a Cristo e a tutti: la dimensione tormentosa e, diremmo, persino persecutoria dell’amore di Cristo.
Non vivere più per se stessi: cosa c’è di più radicale? Non vivere più per se stessi: è la «radicalità dell’amore» che ci deve tormentare, fino a farsi «radicalità missionaria»!
Sì, Paolo sembra quasi tormentato dall’amore di Cristo in lui. Un amore che lo avvolge, lo travolge, lo possiede e, nello stesso tempo, sembra indurlo a non possedersi più; come Cristo, il cui amore è arrivato a «morire per tutti». È il cuore della missione, dell’evangelizzazione; è il cuore del Vangelo. Del resto «Gesù medesimo, Vangelo di Dio (cfr. Mc 1,1; Rm 1,1-3), è stato assolutamente il primo e il più grande evangelizzatore. Lo è stato fino alla fine: fino alla perfezione e fino al sacrificio della sua vita terrena».
Anche per noi il senso della missione prende il passo da un amore stringente, che ci circonda, che non ci offre scampo, che ci possiede, ci costringe ad uscire, ci spinge ad andare fuori di noi stessi.

Andate in tutto il mondo: andare – vivere

Eccoci, dunque, al secondo binomio della missione: andare – vivere.
«Andate»! Nei Vangeli è questo l’imperativo che Gesù usa per inviare i suoi in missione. E possiamo presumere che non si tratti solo di un andare che indirizza verso un luogo fisico, anche se in molte circostanze pure questo è necessario. «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 15,15-16).
L’andare, in un certo senso, è il movimento richiesto come conseguenza di quell’amore che spinge, costringe, avvolge, tormenta… Che, in ogni caso, pone fuori da se stessi.
Pensiamoci bene: bisogna uscire per andare; bisogna uscire da se stessi per accogliere e rispondere al mandato di Cristo.
E, in realtà, l’uscire da se stessi, movimento necessario all’andare tipico della missione, coincide col non vivere più per se stessi. Si tratta, come per Paolo, di vivere una vita nuova che è, in se stessa, vita di missione, vita missionaria. Una vita che si mette in marcia, in cammino, per raggiungere l’uomo da evangelizzare; per raggiungere, come dicevamo citando Papa Francesco, le «periferie» del mondo e dell’uomo.
Uscire da se stessi non significa in nessun modo «evadere»: nel passo che stiamo meditando, Paolo parla anche in risposta all’importanza che qualcuno attribuiva alle manifestazioni estatiche; in particolare, egli contesta che queste «siano segno qualificante o prova dimostrativa dell’autentico apostolo di Cristo… Altro è il suo connotato di identità. Egli presenta il quotidiano lavoro di dedizione disinteressata e altruistica per la comunità, il concreto vivere non per sé, ma per colui che è morto e risorto per noi, in una parola l’amore di Cristo che lo sollecita a una vita di donazione, e questo può esibire con tutta sicurezza. L’evento salvifico del Signore, morto per rendere possibile a tutti un’esistenza nuova di amore, ha trovato in lui una partecipazione effettiva. Vive della vita di Gesù. È quindi una nuova creatura».
L’amore urgente si incarna in una nuova esistenza. È un modo di amare che deriva da un modo di vivere. Come l’amore di Cristo nel cuore si fa tormento di missione, di evangelizzazione, cosi la vita di Cristo. Uscire da se stessi, dunque, significa vivere della Sua Vita e, in tal modo, non vivere più per se stessi ma per gli altri, per Cristo e per la missione da Lui affidata.
Vivere come Gesù, fino anche a morire: è questo il segreto e l’impegno racchiuso nell’imperativo: «Andate!». Un imperativo che Egli ripete senza sosta e che concretizza in un mandato missionario con il sapore della totalità. «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,18-20); saranno le ultime parole di Gesù ai discepoli.
Il verbo «andate» è al centro di questa totalità: «Ogni potere in cielo e in terra… tutti i popoli… tutto quello che vi ho ordinato… tutti i giorni fino alla fine del mondo…». È una totalità che la vita di Cristo permette ed esige anche in ciascuno di noi: il potere che il Risorto esercita in tutto l’universo e, allo stesso tempo, la vicinanza che Egli assicura ai discepoli in tutti i tempi sono, per noi, la garanzia di una missione possibile. Missione che può e deve essere universale; che si irradia nello spazio, nel tempo, nella profondità; che riguarda tutti gli uomini e tutto l’uomo!
Il verbo «andate» sprigiona, dunque, l’energia e la vitalità dell’azione missionaria, ampliandone l’orizzonte geografico, temporale, spirituale. La missione, in un certo senso, ci chiede di andare «oltre». Sempre!
L’amore urgente non si accontenta, non conosce limiti e confini, è sempre docile a nuove aperture. È l’amore urgente della missione che si spalanca alla dimensione di universalità. E con l’uso cosi frequente della parola «tutto» (in greco pàs), «il testo acquista il carattere della definitività, appunto di un testo conclusivo».

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