9 MAGGIO, 2022
Come identificare il “bene comune”, che nome dargli in questo momento così buio e confuso della storia, di un mondo – come scriveva già un decennio fa un politologo francese – “sbussolato”?
In effetti questa “terza guerra mondiale a pezzi” (Papa Francesco) è proprio il segno di una esplosione di conflittualità a trecentosessanta gradi, prima ancora della guerra guerreggiata.
In effetti, i piani sono sconnessi: della politica, dell’economia, della finanza, della comunicazione; le grandi agenzie, le grandi realtà multinazionali e gli Stati, quelli a taglia imperiale e via via tutti gli altri. Con la novità che il tabù della guerra che avrebbe dovuto preservare l’Europa è stato violato. E più si incista la guerra più si perde il bandolo del non solo del bene, delle persone e dei popoli, ma anche il senso della comunità, dell’aggettivo comune.
Il bene comune, insegna da sempre la Dottrina sociale, “è il bene concreto di tutti e di ciascuno”. Non è una somma, ma un totale, e comunque non è un principio astratto, ma è concreto, ovvero individualizzato.
Non è un caso che il primo nome di una realtà che doveva superare lo Stato-Nazione, e dunque il nazionalismo esasperato con le sue guerre, sia appunto “Comunità”, le diverse Comunità europee, dopo la seconda guerra mondiale, e prima ancora “Società”, la Società delle Nazioni come effimero riferimento dopo il disastro della prima guerra mondiale.
Le Comunità europee hanno rappresentano la realistica proposta di una integrazione tra gli Stati e tra le economie, superando, in particolare, le guerre combattute tra Francia e Germania tra Otto e Novecento. Questo è stato reso possibile da forze politiche, in particolare le democrazie cristiane e i partiti socialdemocratici, che, pur non riuscendo ad arrivare al livello costituzionale, sono state capaci di innescare un processo politico-istituzionale virtuoso. Processo che si è arrestato nel momento in cui si doveva passare al livello superiore, quello dell’integrazione politica e costituzionale, ma che è rimasto aperto come prospettiva. Mancano forse ora gli interpreti politici adeguati, cloroformizzati dal tornante neo-liberale della fine del secolo scorso. Ma il processo può essere riaperto.
Si pone qui il vero problema: come dare forma organizzativa e istituzionale alla tensione al bene comune, al di là della buona volontà personale, al di là della valorizzazione dei legami interpersonali, cioè al di là dei rapporti “brevi”. Questo interpella evidentemente in prima persona i cristiani, e i cattolici, consapevoli della loro duplice cittadinanza: cittadinanza “celeste”, come tensione, come appartenenza in ultima istanza, e cittadinanza “terrestre”, come luogo d’impegno concreto.
Una duplicità che non è opposizione, ma connessione, dunque testimonianza. Una testimonianza sociale che ovviamente non può non porsi il problema delle forme concrete.
In questa fase storica il pericolo forse più insidioso è quello di un certo scoramento da percezione (errata) di inadeguatezza. I meccanismi globali, in particolare quelli finanziari e, in questo particolare momento, le ragioni della guerra sembrano inattaccabili, inarrivabili. Per cui la tentazione è auto-percepirsi come inadeguati e di conseguenza irrilevanti; dunque, auto-dispensarsi dalle prospettive di azione.
C’è una parola, che è anche un peccato, o, più esattamente un vizio capitale, che sinteticamente esprime i pericoli che questo circuito evoca: accidia. L’accidia è oggi, nelle nostre società avanzate, nelle nostre democrazie mature, nei nostri raffinati sistemi di comunicazione e di consumo, segnati ormai dall’intelligenza artificiale – che è molto più artificiale che intelligente – in quanto programmaticamente massificate e massificante, l’accidia è il contrasto più evidente al bene comune. Perché è insidiosa, sfibra senza colpire direttamente. È il corrispettivo nella pratica di quello che è il nichilismo in filosofia.
Dante, di cui abbiamo appena finito di festeggiare il sesto centenario, sistema gli accidiosi nella quarta cornice del Purgatorio. In quanto colpevoli di scarso amore per il bene sono costretti a correre a perdifiato, gridando alternativamente esempi di sollecitudine alternati ad altri di punizione dell’accidia, incitandosi a non perdere tempo per poco amore.
Facilitata da potenti dosi di narcotico sociale, l’accidia è dunque la condizione, o comunque la tentazione, che tanti subiamo in questi anni, una silenziosa ed insinuante aura culturale, intellettuale e morale, che ci richiama una riflessione che nel 1991 san Giovanni Paolo II aveva consegnato all’indomani della caduta del muro di Berlino, nel centenario della prima Enciclica sociale “Rerum Novarum”: la democrazia rischia di tramutarsi in forme di totalitarismo aperto oppure subdolo, quando viene meno il riferimento a principi e valori. Affermazione che si deve leggere anche come vaccino contro l’accidia e come richiamo a un impegno concreto, organizzativamente definito, per il bene comune. E che si combina con quella che più volte ha ripetuto papa Francesco: occorre cambiare il modello di sviluppo, occorre cambiare davvero.
Può essere la fraternità una forma in qualche modo intelligibile, concretamente praticabile, per dare concretezza alla tensione al bene comune? È una delle proposte del Papa, solennemente condivisa, per esempio, dal mondo islamico nella dichiarazione di Abu Dhabi. Le ultime encicliche di papa Francesco sono encicliche sociali globali ed ambientali. Si veda anche la proposta dell’economia civile, rilanciata come Economy of Francesco, e quella del patto globale per l’educazione. Tutte iniziative per agglutinare energie positive.
E dimostrare come vale molto di più una operosità fattiva, sia pure consapevole dei propri limiti, che l’autocontemplazione accidiosa; magari deprecatoria dei tempi, che saranno pure calamitosi, ma sono quel che sono.
Ne deriva un atteggiamento fiducioso ed aperto: consapevole di muoversi in un’età incerta, ma anche delle poste in gioco. Che sono sempre rilevanti, quando in gioco c’è la vita e il bene, il bene comune.
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