2 MAGGIO, 2022
Fare una «nuova evangelizzazione» o «essere nuovi» per l’evangelizzazione?
Parlare di evangelizzazione pone un quesito: in che modo evangelizzare? Si tratta di raggiungere i diversi ambiti utilizzando diversi linguaggi, parlando a persone diverse, percorrendo le nuove vie che la società, la cultura e la comunicazione ci indicano.
Ma tutto questo, pur sempre molto utile, non basterebbe mai; bisogna raggiungere veramente «tutti». Anche il programma che san Paolo ci consegna è molto ambizioso: «L’amore del Cristo, infatti, ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per lui che è morto e risorto per loro» (2 Cor 5, 14-15).
Per «tutti» Cristo è morto e risorto; e, fino a che «tutti» non sono raggiunti, il Suo amore stringente in noi non ci deve lasciare tregua! E deve riproporre il quesito su “come evangelizzare”.
È una domanda alla quale potremmo trovare risposta ancora nelle parole di Paolo il quale, con una formula concisa e difficile, ma carica di significato e di testimonianza, ci offre la sua esperienza personale: «Mi sono fatto tutto per tutti» (1 Cor 9, 22).
Dunque, per arrivare a «tutti», bisogna «farsi tutto»!
È il cuore, in un certo senso, di ogni metodologia dell’evangelizzazione e della perenne novità di essa. Perché se è vero che la missione implica l’uscire da se stessi, è vero che una tale uscita – necessaria al singolo cristiano, alle diverse comunità, alla Chiesa locale e universale nel suo insieme – va imparata.
E quella che potremmo chiamare la «metodologia dell’uscita da se stessi», traendo dalle stesse parole di Paolo alcune riflessioni applicative.
«Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, poiché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo, senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che erano sotto la Legge – pur non essendo io sotto la Legge -, mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. Per coloro che non hanno Legge – pur non essendo io senza la Legge di Dio, anzi essendo nella Legge di Cristo – mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io. Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi, invece una che dura per sempre. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi, tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, io stesso venga squalificato» (1Cor 9,16-27).
La parola greca pànta, che traduciamo con «tutto», indica un po’, come in italiano, la totalità come pure i singoli elementi. È un tutto unitario quello a cui Paolo si riferisce; è un tutto che include un insieme di cose. Oltre alla parola «tutto» un’altra richiama la nostra attenzione: «guadagnare». L’obiettivo dell’annuncio del Vangelo, della missione, secondo le parole di Paolo, è un «guadagnare», non qualcosa, ma «qualcuno»: i deboli e i giudei, i legalisti e i fuori legge… guadagnare le persone; e guadagnarne il maggior numero.
Paolo crea un nesso tra evangelizzare e guadagnare. Ed è interessante che il verbo guadagnare (in greco cherdàino) sia usato anche nella parabola dei talenti (Mt 25,14-30): si tratta qui del «guadagno» che i servi fedeli possono presentare al Signore avendo speso e impegnato completamente i talenti che da Lui sono stati loro affidati.
La missione evangelica è dunque così, come un talento. E bisogna dare tutto se stessi e tutto il talento: bisogna trafficarlo, impegnarlo, senza pigrizia; bisogna far uscire fuori questo talento, portarlo alla luce, per guadagnare ciò che il Signore si aspetta. Non sempre questo guadagno, lo sappiamo bene, è in nostro potere; ma il talento sì, è nelle nostre mani!
È un talento, la missione: che non si può lasciare chiuso in se stesso; che non si può nascondere sotto terra senza conseguenze disastrose, senza guadagnare per Cristo ciò che Cristo ci ha affidato.
Guadagnare, in realtà, non significa possedere ma mettere a frutto. Il guadagno cui Paolo si riferisce non è per noi, non è destinato a rimanere nelle nostre mani: è un guadagno di persone, per cui le persone sono «conquistate» non da noi ma da quel «talento» che ci è stato affidato, segno e sacramento dell’amore urgente con il quale esse sono amate.
La comunità è missionaria quando è “segno” di questo talento: noi guadagniamo i fratelli; e non «a noi» ma «a Cristo» e, dunque, alla comunità cristiana, alla Chiesa.
La missione è un talento di tutta la Chiesa. La Chiesa si fa missionaria, ma quando prende coscienza di essere Chiesa. Dio, dicevano i Padri della Chiesa, dà lo Spirito Santo nella misura in cui si ama la Chiesa. E lo Spirito Santo, lo sappiamo bene, è il protagonista della missione.
La missione è sempre un atto di amore alla Chiesa, un amore gravido di appartenenza; e la metodologia dell’uscita da se stessi è una metodologia di comunione-comunità.
La novità che ci è richiesta per la missione di evangelizzazione parte sempre da noi stessi, dall’intimo della persona singola e della vita di comunità.
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